Un ultimo (e non indifferente) spunto fornito dal nostro Rendo. Per rivedere le puntate precedenti fate un giro su http://anotherscratchinthewall.com/tag/streetforum/
#StreetForum
Lo scorso 16 marzo ha aperto la sesta edizione milanese di Affordable Art Fair, la mostra mercato di arte contemporanea con pezzi al di sotto dei 6mila Euro. in quell’occasione Pao, che ad AAF partecipa esponendo allo stand G4, ha scritto su Facebook :
“Affordable Art Fair, classifica di quest’anno:
Teschio 50 dipinti
Marilyn 15 dipinti
David Bowie 8 dipinti
Il teschio vince alla grande stracciando tutti i concorrenti e soprattutto Marilyn, dominatrice degli ultimi anni, si piazza terza. New entry è David Bowie, che scalza così Audrey Hepburn dal podio”.
Una battuta, che però esprime un giudizio non solo sulla kermesse ma sull’intera scena contemporanea della produzione. E quindi del mercato.
Affordable Art Fair, la street art è per tutti. Anche in galleria
In questi giorni di concitata discussione in salsa bolognese si è parlato molto della compravendita delle opere di street art. Durante le mie chiacchierate con Rendo (che sono confluite nella rubrica #StreetForum) prima, e quelle con Atomo poi, sono giunta a una conclusione: volontà dell’artista, regole di mercato e trasparenza dell’attività sono gli ingredienti che rendono la vendita opere di street art un atto più che mai lecito. E pure remunerativo.
C’è chi dice panta rei e chi replica che cambiare fa schifo, o è sintomo di poca coerenza.
Nonostante l’ovvietà della frase, continuo a incontrare persone che spacciandosi per colte estimatrici del mio lavoro passato, riescono a uscirsene con frasi del tipo: “Negli anni 80 facevi certe cose… Sarebbe bello se tornassi a rifarle”. Insomma, tutto dovrebbe evolversi tranne me, e io dovrei comportarmi come se avessi ancora diciassette anni? Anche volendo, sarebbe impossibile. Eppure ogni tanto incontro ancora qualcuno capace di auspicarlo in modo sincero.
Una cosa simile accadde nel 1990. A un certo punto capii che misurarmi con la realizzazione di graffiti di grosse dimensioni era l’unico modo per continuare a crescere come writer, nonostante molti dei miei amici pensassero che il mio fosse un azzardo destinato a fallire. Mi sentii dire che era meglio continuare a dipingere come stavo facendo. Cambiare era troppo rischioso, e un fallimento, avrebbe fatto di me lo zimbello di tutti. Per fortuna non li ascoltai, e con tutto il senso di umiltà e determinazione di cui ero capace, realizzai opere di cui vado ancora fiero.
Oggi, vedo nell’estendere il proprio lavoro a superfici diverse dal muro un atto di rinnovata maturità. Progettare non una, ma una serie di opere da esporre (in una mostra, per esempio) obbliga l’artista ad adottare uno schema di ragionamento diverso da quello che solitamente si usa nel realizzare una serie di graffiti. Ogni opera deve funzionare sia singolarmente sia come parte di una visione più ampia, che essendo mostrata in un unico evento deve apparire credibile. In quanti non capiscono ancora che un singolo lavoro ben fatto può essere solo un evento fortuito? Costruire un proprio alfabeto espressivo rende credibili, per questo penso che per capire il valore di un individuo che aspira a definirsi tale sia indispensabile osservare una produzione di almeno quindici opere. Ho visto ragazzi che in buona fede si credono artisti per il solo fatto di essere riusciti a esporre sempre lo stesso lavoro, o varianti dello stesso, senza un minimo accenno di crescita, in mille mostre collettive. E la cosa più brutta è che nessuno sembra in grado di farglielo notare.
Proprio nel giorno in cui inaugura la mostra “Printed matters” di Shepard Fairey alla Galo Art Gallery di Torino, Rendo parla del (naturale) spostamento di un artista dal muro allo spazio espositivo. In tanti urlano allo scandalo quando, nella normale evoluzione stilistica di chiunque faccia cultura, quello che era visto come un “purista” del muro inizia a esporre sketches, canvas e qualunque altra creazione artistica in una galleria o addirittura in un museo. Ma attenzione a non fare confusione: sono passati i tempi in cui gli spazi espositivi erano luoghi eccessivamente d’élite o, peggio, polverosi contenitori di oli su tela del Trecento. Sempre di più sono posti sicuri e dinamici in cui gli artisti possono mostrare al grande pubblico nuove sperimentazioni o il dietro le quinte di opere su muro. È quest’ultimo il caso di Fairey: “Printed matters” è una serie di mostre che si concentra sull’importanza del suo materiale stampato. Ogni mostra mette in evidenza questo significato incorporando una varietà di opere stampate da Shepard, comprese le serigrafie su carta, le stampe su legno, le stampe serigrafiche su metallo, e i collage. Il progetto è iniziato ufficialmente nel 2010 a Los Angeles ed è proseguita a Dallas nel 2012, fino ad arrivare a Detroit l’anno scorso. La Galo Art Gallery presenta a Torino la quarta mostra ufficiale di “Printed Matters”, la prima mostra ufficiale di Shepard Fairey in una galleria privata in Italia. Ma ora la parola va a Rendo.
C’è chi pensa che un writer, forse un po’ sfaccendato, un giorno si svegli, si faccia un caffè e sfogliando un’agenda pressocchè vuota decida di imbracciare le bombolette e recarsi su muro in qualche zona periferica della città. Qui, mosso dal sacro fuoco dell’ispirazione, molti pensano che dipinga i suoi deliri da acido con uno stile e un senso delle proporzioni del tutto perfetti. Bello, fa molto artista maledetto, ma state sicuri che non è così. Perchè? Date un occhio a quello che pensa Rendo.
Il viso incappucciato, le bombolette nella tasca della felpa, lo sguardo basso per non farsi riconoscere. Siamo davvero sicuri che quello è un writer? O, piuttosto, è la visione distorta che un po’ tutti ci siamo fatti di un writer, un losco figuro che “attacca” nel buio della notte? Lavorare sui muri non significa fare cose a caso purchè illegalmente.
#StreetForum Nel nostro movimento non esistono filosofie vincenti o perdenti a priori
Il rischio per chi fa arte, di strada soprattutto, è quella che si giochi al gioco del “chi ce l’ha più lungo”. “Che sucker quelli che fanno cose legali”, dice il bomber che sfida l’autorità. “Che sfigati quelli che fanno ancora underground”, dice l’hipster al caldo della sua galleria. Rilassiamoci, tiriamo un sospiro e fermiamoci a guardare l’opera: quella, e solo lei, potranno dirci se un artista può davvero essere riconosciuto come tale, al di là dell’abito che indossa. La parola a Rendo.